Gli eventi, le opere e la storia

Un futuro per l'Abbazia Benedettina di Lamezia Terme

Si intravedono spiragli di luce per l'Abbazia Benedettina di Sant'Eufemia, una perla del patrimonio artistico, storico e simbolo religioso del territorio comunale e regionale

Per una città come Lamezia Terme possedere aree archeologiche di proprietà comunale è oggi più un onere che un privilegio: come valorizzare, come mettere a frutto, come produrre ricadute reali sulla vita cittadina in una fase storica, quale quella che stiamo attraversando, che ci ha drammaticamente ricordato quanta miopia sia alla base del subordinare alla redditività e alla mera logica del rientro economico l’esistenza e la manutenzione dei "beni” culturali?

E dunque: "vale la pena” di diserbare (nel caso dell’Abbazia Benedettina di Sant’Eufemia dovremmo dire "disboscare”, stando alle condizioni in cui l’Amministrazione Mascaro l’ha trovata dopo due anni di commissariamento), ripulire, custodire, aprire al pubblico siti culturali o naturalistici che, in tempi di crisi, riempiono solo la voce "uscite” del bilancio?

La risposta del Sindaco Paolo Mascaro è stata affermativa; una scommessa condizionata dall’impegno che la riapertura dell’Abbazia investisse su due concetti di fondo: "restituzione” ed "educazione”.

I due concetti si concretizzano nell’individuare una strategia di comunicazione a cerchi concentrici, adeguabile ai fruitori potenziali di una storia leggibile a più livelli: quella di un’abbazia fondata nel 1062 da parte del condottiero normanno Roberto il Guiscardo come presidio dell’alleata chiesa latina; quella della rifondazione dell’abbazia sulle preesistenze di un monastero bizantino di rito greco, dedicato alla vergine Eufemia di Calcedonia tra l’VIII e il IX secolo; quella di un sito due volte monumentalizzato, che insiste sulle rovine della polismagnogreca di Terina, distrutta alla fine del III sec a.C., che sotto le possenti mura medievali c’è anche se non si vede; quella di un terremoto che nel 1638 cambia il volto del comprensorio e causa il crollo e l’abbandono definitivo di un luogo sacralizzato per almeno otto secoli; quella di un territorio i cui toponimi raccontano una storia al femminile: Terina è la ninfa delle sorgenti, simbolo insieme di pudore e seduzione femminile e testimone di una terra ricca di corsi d’acqua; Eufemia è la martire cristiana dal corpo miracoloso che oggi dà il nome all’intero golfo lametino, la cui testa come reliquia è stata ininterrotto oggetto di venerazione nel monastero bizantino, nell’Abbazia Benedettina dedicata a Gesù Cristo e alla Vergine Maria e oggi nella chiesa di Sant’Eufemia Vetere; infine, Lamezia, denominazione derivata da quel "Lametinum”, che Roberto il Guiscardo nel suo diploma riportava come definizione di quest’area sin dall’età greca.

Questi i contenuti di base. Ma qual è l’espressione della vocazione spontanea di un sito culturale immerso in un contesto tale da manifestare quella misteriosa alchimia tra ambiente naturale e mano dell’uomo, che sintetizziamo – e banalizziamo – nella parola "bellezza”?

Come si salva la bellezza che dovrebbe salvare il mondo – o anche solo una sua minuta frazione?

È come se la polisemia peculiare di questo luogo di convergenze, ecumenico per vocazione e stratificato per destino, fosse divenuta all’improvviso un suo limite. Le mura alte fino a 6 metri si sono prestate negli anni a divenire quinte di magnifici e partecipati spettacoli estivi sotto le stelle o di feste di arte, musica e colori mentre, come su una rotta parallela, camminava silenziosamente la ricerca archeologica, che ha rivelato nel giro di pochi anni quali potenzialità di nuove conoscenze l’Abbazia ancora custodisca.

Se si voleva "restituire” alla città un sito in qualche misura periferico – sebbene ricadente su una delle principali direttrici del traffico stradale, aeroportuale e ferroviario di Lamezia Terme – prima che a ipotetici turisti andava restituito alla cittadinanza. La visione alla base della riapertura dell’Abbazia è stata dunque quella non di luogo-contenitore di eventi ma di luogo-generatore di idee e di incontri, fruibile a tutti i livelli e gratuitamente e in tutte le sue accezioni: le tarsie marmoree del pavimento dell’abside centrale o gli affreschi dell’abside nord dialogano con eruditi e studiosi, mentre gli ampi spazi aperti tipici di una campagna sono ideali per le famiglie con bambini e animali domestici; c’è l’ombra degli alberi sulle panchine per chi voglia trascorrere un pomeriggio leggendo fino al tramonto e il silenzio adatto a chi desideri incontrarsi per dialogare, fare attività sportiva, rilassarsi. Quando questo è l’obiettivo, ad un’amministrazione non resta che prestare i servizi essenziali: l’apertura, la chiusura, la custodia e la comunicazione. Veri e propri tutori dell’Abbazia Benedettina hanno saputo diventare i giovani volontari del Servizio Civile Universale, che hanno offerto a tutti i visitatori una illustrazione guidata del parco; a loro si sono presto aggiunti associazioni culturali e singoli archeologi e storici dell’arte lametini, che hanno autonomamente offerto itinerari culturali su appuntamento. L’Assessorato alla Cultura nel frattempo – pure nelle difficoltà delle restrizioni legate alla pandemia da Covid-19 – ha sperimentato un modello di fruizione che proponesse piccoli eventi non dissonanti rispetto alla natura del sito: all’ecumenismo religioso che vi si condensa è stato aggiunto il plusvalore laico del poter ospitare cerimonie, letture, concerti e celebrazioni, ma anche un incontro interreligioso tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa nel giorno della Natività di Maria. In breve: si è tentato di comunicare l’Abbazia Benedettina come un parco urbano che in seconda istanza è anche un parco archeologico; come un luogo di benessere prima che di cultura, pronto e attrezzato non solo per grandi eventi ma anche per più ridotti e frequenti incontri aperti alla cittadinanza che, alla fine, sono l’ossatura della vita culturale delle comunità.

Le contingenze pandemiche e le intermittenze politiche non hanno finora permesso di proseguire con le scuole questa progettazione, che è stata premiata dalla cittadinanza con oltre mille ingressi unici nell’arco di due aperture pomeridiane a settimana per tre mesi. Il futuro deve vedere la costituzione di una rete che inglobi in un’unica percezione quel bacino storico, naturalistico e culturale che parte dal Bastione di Malta, attraversa la grecità con il parco archeologico di Terina, prosegue lungo il complesso termale di Caronte all’ombra del monte sant’Elia, per terminare al castello normanno-svevo di Nicastro.

L’operazione educativa potrà dirsi realizzata quando il monumento sarà divenuto luogo d’abitudine, quando vi si potrà entrare e uscire con naturalezza priva di enfasi: quando, cioè, si sarà sviluppato nelle diverse generazioni di cittadini il senso dell’appartenenza a questi luoghi.

Si è tentato di attuare a Lamezia un paradigma che dovrebbe valere sempre e specialmente nei tempi di crisi: è lo Stato, anche nelle sue articolazioni locali, a doversi fare carico della cultura e dei beni culturali, la cui unica ricaduta è l’esercizio di alcuni dei diritti fondamentali dell’uomo: l’istruzione, il benessere, la ricerca della felicità.

Giorgia Gargano


Gli affreschi dell’Abbazia

Se la recentissima pubblicazione dei dati preliminari delle ricerche archeologiche consente ora di avere un quadro più chiaro del complesso monastico, le poche ma significative testimonianze pittoriche dell’abbazia riportate alla luce nel corso delle campagne di scavo restano ancora inedite.

In attesa di doverosi approfondimenti, restauri e indagini, i cui dati andranno necessariamente intrecciati a quelli archeologici e architettonici, si presenta qui in anteprima, per gentile concessione dell’autore, la sintesi di una breve scheda dedicata alle pitture dell’abbazia a cura del dott. Lorenzo Riccardi, autore del secondo volume del Corpus della pittura monumentale bizantina in Italia, dedicato appunto alla Calabria, di prossima pubblicazione per i tipi di Rubbettino.

 Nel corso degli interventi di scavo del 2015, nell’abside minore di nord-est è stato riportato alla luce un ampio frammento di affresco che ricopre la metà destra della parete della struttura. L’affresco si articola in due registri, superiore e inferiore, separati da una cornice rossa, che a sua volta divide il registro inferiore in tre pannelli. In particolare, la parte destra del registro superiore è occupata da una grande scena. Su di un prato verde decorato con fiori rossi (papaveri?) si dispongono almeno cinque figure, purtroppo conservate fino al ginocchio o alla vita, tutte vestite con tunica, mantello e sandali: due all’estremità sinistra, due a quella destra e una al centro, equidistante da entrambi i gruppi, ma rivolta verso quello di destra, come suggerisce la posizione dei piedi. Proprio questo elemento fa propendere per una scena narrativa – piuttosto che per una teoria di santi – magari incentrata proprio sulla figura centrale, che rispetto alle altre ha sia la tunica che il mantello di colore rosso, elemento che ne suggerisce l’identificazione con Cristo. Purtroppo lo stato lacunoso della pittura non consente di determinare ciò che egli facesse e il rapporto quindi con le altre figure (apostoli?). Nell’attesa che ulteriori studi identifichino il soggetto iconografico, le pitture assumono un particolare interesse per la loro collocazione nella zona absidale e per la plausibile presenza di una controparte nell’altra metà, oggi priva di intonaco dipinto. La plissettatura degli abiti, molto grafica e regolare, e la presenza dei fiori rossi di memoria altomedievale, sembra suggerire una cronologia di non molto posteriore al cantiere di costruzione dell’abbazia, ovvero entro la fine dell’XI secolo.

Dott. Lorenzo Riccardi, Funzionario Storico dell’Arte - Ministero della Cultura


 

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